Quando il volontariato diventa casa

Il cielo sopra l'ex cascina comincia a imbrunire, mentre il campanello della porta scandisce i ricordi.
Sono gli ospiti dell'associazione La Grangia di Monluè che tornano da una giornata di lavoro, da una visita ad amici, dalla preghiera nelle rispettive chiese. Accanto alla lista per apparecchiare e lavare i piatti, un cartello appeso al muro recita le regole del centro in italiano, francese, inglese e tigrino, la lingua eritrea parlata anche nel nord dell'Etiopia, nella regione di Tigrè.

Davanti al camino scoppiettante c'è chi guarda la partita seduto sul divano, chi si cimenta in un gioco da tavola, mentre il profumo della cucina semplice e gustosa di suor Gisella ti accoglie. Proprio come se fossi a casa.

"Casa" la chiama anche Massimo, che ha svolto qui il servizio civile otto anni fa e non ha più voluto lasciare questo piccolo mondo di accoglienza per rifugiati, profughi e immigrati richiedenti asilo politico. Per lui e la moglie Alessandra, entrambi volontari, questa esperienza rappresenta una parte irrinunciabile di vita. Per questo, meno di un anno fa, hanno voluto piantare qui l'albero donato dagli amici per il battesimo di loro figlio, Giacomo.
Difficile dipanare i ricordi e mettere in fila i momenti cruciali di questo servizio di volontariato, divenuto nel tempo famiglia e vita. Tutto è iniziato dopo la laurea in Ingegneria, nell'aprile del 2002. «Dovendo scegliere dove svolgere il servizio civile, don Walter mi ha parlato di questa associazione e mi ha accompagnato a conoscere l'ambiente - racconta Massimo - . Volevo giusto fare un saluto, ma non ho fatto in tempo a mettere dentro la testa nell'ufficio di Suor Luigina, che mi hanno messo all'opera chiedendomi di recuperare un frigorifero con un furgoncino».

La Grangia è anche questo: stare in una casa e fare quello che si fa in una vita in famiglia. Conquistato dalla concretezza e la semplicità dell'approccio, Massimo, nell'estate del 2002 dopo un paio di mesi di volontariato internazionale in Tanzania, ha dato il via al servizio civile in una vera e propria "squadra": gli operatori, altri 5 colleghi obiettori e le suore di Maria Bambina, addette alla cucina, l'orto e il magazzino dei vestiti.

Un inizio soft, di traslochi e sgomberi per sostenere parte delle spese dell'associazione. Con settembre nella ex cascina sono arrivati i primi ospiti. Con loro è iniziata l'attività vera e propria di accoglienza e integrazione per gli stranieri, segnalati dal Servizio accoglienza della Diocesi di Milano e dall'ufficio Stranieri del Comune. Non più solo manovalanza e gestione della casa, ma anche sostegno nell'apprendimento della lingua italiana, accompagnamento nel disbrigo delle pratiche legali e informazione sui servizi del territorio.

"Forti e intensi" i primi contatti, ricorda con lo sguardo lontano. Storie di vita, di immigrazione, di separazioni e di viaggi. «Sono racconti di solitudine, di malinconia, di vite interrotte, famiglie divise e lontane. Proprio per questo è importante fare sentire la vicinanza, accogliere in una casa e una famiglia. Offrire giusto un po' di normalità e serenità in una fase della vita così difficile come è quella della fuga dal proprio paese, dell'allontanamento forzato, della solitudine in una nuova realtà sconosciuta».

Spazio quindi ai ritmi piani di una famiglia, alle più classiche gite fuori porta, all'animazione, ai momenti culturali per avvicinare alla società italiana. E, ancora, serate di musica e racconti da ogni parte del mondo. Senegal, Sierra Leone, Congo, Afghanistan, Iran,... Massimo, occhi alla cartina appesa al muro, esita a pronunciare i Paesi di origine degli ospiti della casa. In fondo non conta quanti chilometri abbiano percorso, come siano arrivati, da cosa stiano scappando: «All'inizio forse chiedi per soddisfare la tua curiosità, poi scopri che è meglio lasciare che ne parli chi se la sente - spiega - . Non si tratta di storie interessanti, ma di vite che bisogna ascoltare con discrezione e rispetto. Quando qualcuno si apre con me e mi racconta il proprio percorso, non si tratta più di generiche storie di cronaca, ma di uomini che bussano alla mia porta ed entrano nella mia vita e nel mio mondo».
Questo l'insegnamento più importante per chi non ha mai avuto occasione di relazionarsi con persone straniere. Ognuno ha un proprio percorso: chi cerca lavoro, chi una casa, chi segue corsi professionali. A La Grangia si cerca solo di ascoltare per aiutare a definire la direzione, dare sostengo morale e materiale nei primi passi. Un'esperienza ricca e varia che Massimo definisce "una provocazione" ai tempi in cui si parlava della legge Bossi-Fini e, in un certo senso, anche in questi giorni di allarmismi e intolleranza: «Questa attività mi ha insegnato a lasciare da parte le paure che la società induce in ognuno di noi e mi ha fatto comprendere cosa significa essere straniero. Significa essere solo, confrontarsi con un altro mondo in cui si cerca di essere accolto».
Negli anni le mansioni seguite all'interno dell'associazione sono cambiate: non più l'appuntamento fisso dell'insegnamento dell'italiano, ma tante piccole attività. Anche il tempo dedicato si è ridimensionato, assecondando la vita lavorativa e quella di nuova famiglia appena nata. «È quasi divenuta parte della nostra vita, una presenza continua e in un certo senso fedele - spiega - un impegno verso la realtà e verso queste persone».

La campana della cena interrompe il flusso dei ricordi. È pronto, tutti a tavola. Massimo aiuta a passare i piatti, siede e cena con gli ospiti, mentre Suor Gisella si affretta a spiegare la ricetta del riso alla campagnola fatto con le verdure dell'orto di casa. Uomini provenienti dagli angoli più lontani del mondo siedono allo stesso tavolo. Si sfiorano, gomito a gomito, pelli dalle sfumature più contrastanti, ma non si percepisce nessuna differenza di religione, fede politica o etnia. Solo grande serenità.

Massimo